Tiziano Scarpa, La verità e la biro, Einaudi, 2023
«Tutto quello che non si può dire perché ferirebbe chi ci vuole bene, perché ci metterebbe in cattiva luce, perché non è il caso, perché chi me lo fa fare, perché la vita è già pesante così, perché non occorre complicarla, perché sì, perché no, perché…»
Difficile trovare qualcuno che ci dica la verità, visto che siamo noi stessi i primi a evitarla. Eppure non fa che inseguirci: ce l’abbiamo scritta sulla pelle, indelebile e spontanea come la penna biro su un taccuino. Quello che avete per le mani è un libro che non assomiglia a nessun altro. Un romanzo, una confessione, un saggio, un memoir, una meditazione brillante e appassionata sui nostri desideri, e su quest’epoca che ci vuole trasformare in esibizionisti e gladiatori.

Gianluigi Bodi, Un posto difficile da raggiungere, arkadia, 2023
C’è un forte filo conduttore che unisce i racconti che compongono questa raccolta. I protagonisti sono persone che cercano un proprio posto nel mondo senza comprendere fino in fondo quale sia la strada da percorrere. A volte sono in cerca di un lavoro che dia senso a una vita di sacrifici, come in Limonium vulgare, altre volte invece stanno cercando un luogo che li isoli dal resto del mondo e gli permetta di rinforzare legami che si erano allentati come nel racconto Il vecchio in bicicletta. Alcuni hanno perso la luce della ragione, altri sanno che una scelta può salvarli dalla prigionia che si sono autoimposti. Ciò che li spinge ad andare avanti è la consapevolezza, spesso anche solo la speranza, che a pochi passi ci sia qualcosa che porti equilibrio nelle loro vite e le faccia risplendere, qualcosa che tolga loro di dosso la sensazione di essere gli unici a camminare con un passo lento mentre tutti gli altri stanno correndo. Un posto difficile da raggiungere osserva queste ricerche spasmodiche da angolazioni diverse, in scenari che dal quotidiano si spingono a sfiorare il surreale e l’horror, e mostra che, per quanto sia difficile il tragitto, alla fine di una ripida salita, c’è uno spiazzo alberato adatto al riposo.

Antonio G. Bortoluzzi, Il saldatore del Vajont, Marsilio, 2023
Sono sessanta gli anni che ci separano dal 9 ottobre 1963, la notte del disastro della diga del Vajont. Erano le 22.39 quando milioni di metri cubi di roccia e terra precipitarono in pochi istanti nell’acqua, e l’onda immensa si alzò nel cielo e annientò in pochi minuti migliaia di vite, paesi interi, storie e tradizioni secolari. Sessant’anni è anche la vita di un uomo al quale sono accadute tante cose: i giochi da ragazzino al torrente, le gite scolastiche, i libri d’avventura letti, e poi l’amore, i figli, gli amici, tutto questo dentro quarant’anni di fabbrica di cui molti vissuti nella zona industriale di Longarone, all’ombra della diga, uno scudo chiaro che però è una lapide, ancora piantata lì, in mezzo alle montagne.
Il saldatore del Vajont racconta questo tempo, attraverso l’esperienza di una visita guidata all’impianto idroelettrico – la centrale nella grotta di Soverzene, le gallerie, il corpo della diga, il coronamento, la frana del Monte Toc –, un viaggio che fa riemergere nel protagonista i ricordi della sua giovinezza contadina, memorie di famiglia e di paese, confidenze di colleghi che al Vajont hanno avuto vittime, accanto a immagini nitide e corporee della vita di cantiere e di capannone, dove la materia viene rimodellata: il calcestruzzo, la malta, la saldatura, e ancora attrezzi, ponteggi, tecniche, un fare concreto, faticoso e moderno, che ha soppiantato il lavoro millenario, massacrante, di uomini e donne sui prati ripidi, con le bestie, nelle valli alpine e sulle montagne.
Scorrendo le pagine, man mano che i fili e i nodi della memoria vengono rinsaldati, si comprende che le costruzioni umane sono simboli tragici. Tutta la perizia, i calcoli, il metallo, la sabbia, i sacchi di cemento accatastati e trasportati verso i cantieri, le migliaia di ore di lavoro di operai e artigiani abili, tutto quell’entusiasmo di partecipare a un’impresa: tutto è finito in pochi minuti.
Il saldatore del Vajont ci accompagna al di qua e al di là di uno dei “prima e dopo” della storia d’Italia, narrando l’epica della costruzione, l’idea di un’Italia all’avanguardia nelle opere pubbliche e nella potenza industriale, e infine il disastro, le morti, la distruzione irrimediabile, e ciò che resta, oggi. Bortoluzzi, narratore cresciuto nella cultura contadina di montagna e che da tanti anni lavora nella zona industriale di Longarone, con questo romanzo ci racconta un disastro del Vajont che interroga, tanti anni dopo, non solo i responsabili, ma tutti noi.

Nicola De Cilia, Giovanni Comisso. Un invito alla lettura, Digressioni Editore, 2021
La narrativa di Giovanni Comisso ha attraversato il Novecento, le sue poetiche, i suoi estremismi e i suoi artifici, uscendone salva e assoluta. Forte di uno sguardo naturale e diretto al mistero delle cose, alla loro nuda verità, lo scrittore organizza la sua magistrale prosa, incantatrice e musicale, e dà conto della continua esperienza dell’evento. Nicola De Cilia ci accompagna a scoprire la vita, i luoghi e la poetica di Comisso, scegliendo come privilegiati luoghi d’analisi “Giorni di guerra” e “La mia casa di campagna”, fornendo allo stesso tempo paralleli e raffronti storico-letterari

Giacomo Carlesso, Goffredo Parise. Un invito alla lettura, Digressioni Editore, 2022
Con una scrittura chiara e precisa, Giacomo Carlesso ci mostra i caratteri artistici principali di Goffredo Parise, e ne evidenzia gli aspetti ancora attualissimi. Uno scrittore etologo che, per sua ammissione, ha vissuto più come artista che come letterato, muovendo direttamente verso la realtà, verso la vita, grazie a un approccio sensoriale che ne ha definito – a volte in modo totale, altre volte in modo più bilanciato – l’intera produzione letteraria. Tornare a Parise, autore sempre capace di reinventarsi e di raggiungere nuovi originali equilibri, significa indagare insieme il caos mai pacificato del mondo

Elena Stancanelli, Il tuffatore, La nave di Teseo, 2022
Nel tuffatore convivono eleganza e passione per il rischio. Raul Gardini aveva imparato da ragazzino a tuffarsi dal molo di Ravenna. Bello, seduttivo, sempre abbronzato, erede acquisito di una delle più potenti famiglie industriali italiane, aveva l’ambizione di cambiare le regole del gioco e la spregiudicatezza per farlo. Spinto dal desiderio, dall’ossessione di andare più dritto e veloce verso la risoluzione di qualsiasi problema. A qualunque costo.
Elena Stancanelli racconta la parabola di Raul Gardini come il romanzo di una generazione scomparsa, fatta di uomini sconfitti dalla storia, fieri del loro coraggio, arroganti, pronti a rischiare fino all’azzardo. Uomini a cui era difficile resistere. La vicenda di un imprenditore partito da Ravenna per conquistare il mondo entra nella vita e nei ricordi della scrittrice, intreccia le canzoni di Fabrizio De André, si muove sullo sfondo di una provincia romagnola tra fantasmi felliniani, miti eroici, ascese improvvise e cadute rovinose. Intorno, i sogni di gloria di un paese che guarda all’uomo della provvidenza con speranza prima, e con sospetto poi. Fino a quando tutto crolla. E il tuffatore resta lassù, da solo, sospeso in volo tra la vita e la morte.

Francesca Zanette, Dove Qualcosa MancaEdizioni readerforblind, 2022
1958. Le Prealpi venete, un paese a mezza costa, la porta di un emporio da cui entrano ed escono voci. A gestire la bottega, Caterina e Pietro; qui, marito e moglie hanno ricostruito il loro presente dopo gli anni della guerra che, solo quattordici anni prima, ha messo a dura prova i fratelli Caterina, Carlo ed Emma, impegnati tra le fila partigiane della Resistenza. Ora il mondo si ricostruisce, il miracolo economico fa capolino; e tuttavia, nonostante l’apparente serenità, il bicchiere è in bilico sull’orlo del tavolo perché la storia personale di Caterina e della sua famiglia è piena di cose non dette. Quando Matthias Rubl, ex tenente della Wehrmacht in pensione, torna in paese con la sua macchina fotografica a tracolla, niente è più come prima. Il passato ritorna, sconvolge coscienze, altera equilibri e deforma relazioni finché, pezzo dopo pezzo, in un andirivieni temporale tra il ’44 e il ’58, si svela il dramma di scelte difficili e la continua ricerca dei tasselli che riempiano quello spazio proprio dove qualcosa manca.

Matteo Righetto, La stanza delle meleFeltrinelli, 2022
È l’estate del 1954, Giacomo Nef ha undici anni e con i due fratelli maggiori vive dai nonni paterni a Daghè, sulle pendici del Col di Lana, nelle Dolomiti bellunesi. “Tre case, tre fienili, tre famiglie.” I bambini sono orfani e l’anziano capofamiglia li tratta con durezza e severità, soprattutto il più piccolo. Il nonno è convinto infatti che Giacomo sia nato da una relazione della nuora in tempo di guerra e lo punisce a ogni occasione, chiudendolo a chiave nella stanza delle mele selvatiche. Lì il ragazzino passa il tempo intagliando il legno e sognando l’avventura, le imprese degli scalatori celebri o degli eroi dei fumetti, e l’avventura gli corre incontro una tarda sera d’agosto. Con l’approssimarsi di un terribile temporale, Giacomo viene mandato dal nonno nel Bosch Negher a recuperare una roncola dimenticata al mattino. Mentre i tuoni sembrano voler squarciare il cielo, alla luce di un lampo scopre vicino all’attrezzo il corpo di un uomo appeso a un albero. L’impiccato è di spalle e lui, terrorizzato, fugge via. Per tutta la vita Giacomo cercherà di sciogliere un mistero che sembra legato a doppio filo con la vita del paese, con i suoi riti ancestrali intrisi di elementi magici e credenze popolari. Matteo Righetto conosce profondamente il mondo arcaico della montagna – durissimo e al contempo vivo di profumi, sapori, dialetto e leggende – e ce lo restituisce nel suo romanzo più maturo e incalzante. Leggerlo è una corsa notturna nel bosco, con il cuore in gola.
I segreti tornano sempre a galla attraverso le leggende.

Antonio G. Bortoluzzi, Come si fanno le cose, Marsilio, 2019
Lungo il fiume Piave, tra capannoni e ditte artigianali ormai prive del vigore di un tempo, ha sede la Filati Dolomiti, fabbrica sfiancata, come molte, dalla crisi degli anni Duemila. È qui che lavorano Valentino e Massimo, due cinquantenni addetti alla manutenzione dei macchinari
Quando una ditta orafa gestita da persone rampanti e senza scrupoli apre i battenti in quello che un tempo era un magazzino della Filati Dolomiti, Massimo e Valentino – conoscendo anfratti e segreti dell’azienda – decidono di preparare la rapina con cui procurarsi l’oro necessario per realizzare il loro sogno:
rilevare un agriturismo sui monti, per iniziare una vita nuova, più giusta.
La meticolosa messa a punto del piano procede spedita e senza intoppi, finché un giorno, sulla corriera che lo porta al lavoro, Valentino incontra Yu, una ragazza cinese di ventisei anni.
Risvegliato dal calore di un amore che credeva sopito per sempre, l’uomo dovrà rimettere in discussione la sua vita e le sue scelte: quando una cosa è sul punto di esplodere, però, è difficile riuscire a fermarla, o anche solo a farle cambiare direzione.

Pietro Del Soldà, La vita fuori di sé Una filosofia dell’avventura, Marsilio, 2022
A chi non è mai capitato di veder riaffiorare all’improvviso nella memoria il viaggio che ha spazzato via molte certezze, quell’incontro erotico tanto intenso da far scoprire il vero piacere o l’effetto imprevisto e sconcertante di un libro, un quadro, una melodia che ci hanno letteralmente trascinati oltre i limiti del nostro Io? Sono le avventure, esperienze che spezzano la routine, fratture dimenticate o rimosse che, se rievocate, riaccendono i desideri messi a tacere. In un avvincente corpo a corpo con i testi fondativi della cultura occidentale e le letture più originali della contemporaneità, l’autore fa dialogare i problemi del nostro quotidiano e le Storie di Erodoto, le intuizioni di Georg Simmel e l’Odissea di Kazantzakis, il teatro di Sartre e le «confessioni» di Platone nel suo scritto più autobiografico, la saggezza ironica di Montaigne e le spiazzanti metafore di Jankélévitch. Come in un diario di viaggio, affascinanti connessioni attraverso i secoli e i continenti ci riportano così sul campo di Maratona, alle radici dei concetti di libertà e di felicità per i greci; in Sudamerica con Alexander von Humboldt, precursore di un’idea di natura che non possiamo non fare nostra; a Praga, tra il pubblico scandalizzato della prima assoluta del Don Giovanni di Mozart, e nel deserto nordafricano, sulle tracce della scrittrice Isabelle Eberhardt. Un invito a metterci in discussione senza necessariamente ricorrere a una fuga into the wild, perché «un’impresa ardita o un episodio irrilevante: tutto può essere avventura oppure ordinaria esistenza, può inserirsi nella sceneggiatura della nostra vita o configurarsi come eccezione esaltante, che però “misteriosamente” racchiude quella vocazione inconfessata che il quotidiano non sa portare alla luce»

Claudio Panzavolta, Al passato si torna da lontano, Rizzoli, 2020
È il 1944, il cacciabombardiere Pippo vola sui cieli della Romagna e Anita è appena una bambina. Ma non dimenticherà mai il momento in cui l’hanno strappata dalle braccia della madre, fucilata dai fascisti. E neanche quando il padre Armando, deperito e irriconoscibile, ritorna dalla Germania dopo un lungo viaggio in sella a una bici di fortuna. A guerra finita, insieme al padre ritrovato e alla zia Ada, che si è presa cura di lei e di sua sorella Edda, Anita proverà a lasciarsi gli anni più difficili alle spalle e a costruirsi un futuro. Armando otterrà un impiego alla Società anonima elettrificazione, viaggiando tra Italia, Grecia, Turchia e Nord Africa. E intanto Anita attraverserà l’adolescenza e la giovinezza con testardaggine e alla costante ricerca di giustizia, vivendo in prima persona i movimenti di emancipazione femminile e i dibattiti interni alla sinistra italiana, spesso in conflitto con Edda, più schiva e conservatrice. Amori, matrimoni, rivelazioni, delusioni e invidie scandiscono la vita della famiglia Castellari, mentre lontano dal piccolo paese romagnolo – nel ventennio della caduta e della risalita, dell’orrore e della speranza – il mondo va avanti, tra tensioni politiche, scoperte scientifiche, conquiste civili, esplosione del jazz e cronache del jet set. A unire le due sorelle, però, resterà sempre il ricordo della madre, e la ricerca dell’uomo che l’ha uccisa. Attraverso una narrazione inarrestabile, arricchita da fotografie e mappe narrative, e capace di dare profondità a ciascuna delle numerose figure che occupano la scena, Claudio Panzavolta ci racconta l’epopea di una famiglia italiana. Sullo sfondo, la piccola e la grande Storia si intrecciano tra loro, diventando le altre protagoniste di questo romanzo strepitoso

Francesca Valente, Altro nulla da segnalareEinaudi, 2022
Premio Campiello Opera Prima, 2022
Altro nulla da segnalare, il libro che ha vinto all’unanimità il Premio Italo Calvino 2021, è un testo raro, prodigioso. Al centro, le storie struggenti dei «paz»: i pazienti – o i pazzi, direbbero i più – dei servizi psichiatrici nati subito dopo la chiusura dei manicomi: uomini e donne che si ritrovarono improvvisamente liberi nel mondo, o che nel mondo non sapevano più come abitare. Le storie a cui dà vita Francesca Valente ruotano sempre attorno a punti luminosi: dettagli, pensieri, eventi; non mirano mai a raccontare le vite dei personaggi, cercano piuttosto il cuore pulsante della loro umanità: perché è lì, in quel frammento di memoria che li riguarda, portato alla luce ma irriducibilmente oscuro, che può essere racchiusa ogni prospettiva d’universalità.

«Occhipinti, insonne, insisteva nell’ordinare champagne: le ho portato in sostituzione dello stesso dell’acqua, ma ha dimostrato, rovesciandomela in testa, di non gradirla. Tutti gli altri signori ospiti hanno dormito, tranne la signora Agosta, che continua ad andare al gabinetto e spacca tutto. Altro nulla da segnalare». «Altro nulla da segnalare» è la formula di rito con cui, nei primi anni Ottanta, si chiudevano i rapportini quotidiani degli infermieri del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’Ospedale Mauriziano di Torino, uno dei primissimi esperimenti di «reparto aperto» subito dopo la promulgazione della Legge 180. Chi finiva il turno riferiva con semplicità a chi lo iniziava quanto era avvenuto nelle ore precedenti: cose ordinarie e straordinarie. Episodi comici, tragici, feroci. In quelle note «c’era un’umanità che raccontava un’altra umanità, con benevolenza e un sincero sforzo di comprensione. Spesso erano entrambe umanità dolenti». Partendo proprio dai rapportini, e dai racconti fatti all’autrice dallo psichiatra del reparto Luciano Sorrentino – che un giorno è andato a casa sua affidandole uno scatolone pieno di tutte le carte che aveva accumulato negli anni -, Francesca Valente ha dato vita a un testo senza paragoni, dove il confine tra documento e scrittura letteraria è sempre mobile e indefinibile. A ogni pagina si avverte che la sua penna cerca qualcosa, mentre insegue le storie di pazienti, medici, infermieri, a partire dalle tracce a disposizione. Qualcosa che miracolosamente trova e ci mette davanti agli occhi. «Perché le tante persone passate per i repartini hanno lasciato minuscoli frammenti: il resto è in un cono d’ombra. E perché ognuna di queste storie è una possibile versione di qualcosa che è accaduto realmente, una fotografia ricomposta di una vicenda individuale e collettiva».

Matteo Melchiorre, Il Duca, Einaudi, 2022
Un paese di montagna, un’antica villa con troppe stanze, l’ultimo erede di un casato ormai estinto, lo scontro al calor bianco tra due uomini che non sembrano avere nulla in comune… Quanto siamo fedeli all’idea di noi stessi che abbiamo ricevuto in sorte? Matteo Melchiorre ha costruito una storia tesissima ed epica sulla furia del potere, le leggi della natura e la libertà individuale. Un romanzo che ci interroga a ogni riga sulla forza necessaria a prendere in mano il proprio destino: «il modo giusto per liberarsi del passato non è dimenticarlo, ma conoscerlo»

Antonio G. Bortoluzzi, Montagna Madre – Trilogia del Novecento, Edizioni Biblioteca dell’immagine, 2022
Questa antologia racconta di chi siamo figli e figlie, di quale Novecento. E quale montagna è nostra madre. Quand’ero bambino e scendevo a piedi in paese a volte incontravo degli adulti che non conoscevo. Loro mi osservavano con una certa insistenza, magari interrompendo il lavoro sui prati, e poi mi chiedevano: Sétu de chi pó ti, mòro? Di chi sei, bambino? Io, oltre la siepe, inchiodato sulla ghiaia bianca della strada e quasi sull’attenti elencavo madre, padre, nonni, zii, cugini. Gli adulti assentivano e avevo la sensazione che piano piano mi collocassero da qualche parte. Non mi piaceva quell’interrogatorio sotto il sole e avvertivo il rossore arrivare fino alle orecchie, mi sentivo come un salame fresco appena insaccato e appeso in cantina: tastato, osservato, perfino odorato. Quado venivo congedato e potevo riprendere la via verso il paese ero ben felice, avevo solo il compito di portare a casa i saluti, e l’impegno era di tenere bene a mente il nome della persona che li inviava. Oggi ho l’età di quegli uomini e quelle donne dei paesi alti e penso non fossero degli impiccioni desiderosi di scoprire novità per darsi al pettegolezzo, ma che con le loro domande indiscrete stessero raccontando una storia, anche a me. Non era quindi un interrogatorio, ma il disegno di una mappa.
Credo sia da lì che ho iniziato ad appartenere a un luogo.

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